domenica 27 settembre 2009

Esterofilia

Una mania nazionale è ritenere che quel che si fa fuori del nostro paese sia sempre migliore. Una manifestazione della xenofilia italiana consiste nel credere che i sistemi d’istruzione europei, siano sempre preferibili nostro. Quanto più si approfondisce la situazione tanto più si constata che non è così. E questo non è un bene, bensì una disgrazia. Difatti, se il contesto europeo non tale da “tirarci su” offrendo modelli vincenti, sarà difficile venir fuori dalla crisi dell’istruzione.
Un paese che viene portato a modello ideale della scuola è l’Inghilterra. Abbiamo raccolto la testimonianza di un’insegnante elementare inglese che conosce anche il sistema italiano. Ci ha parlato di un insegnamento strutturato in modo ultra schematico per quell’esigenza di semplificazione che gli “esperti” chiamano (orrendamente) “essenzializzazione”. Per apprendere la lingua non si leggono libri, né si fanno composizioni scritte, bensì soltanto conversazioni ed esercitazioni lessicali. Gli alunni si avvalgono di lavagnette su cui verbalizzano concetti con frasi brevissime. Deve trattarsi di questioni impersonali con assoluto divieto di riferirsi alla sfera personale e familiare. L’insegnamento della matematica consiste solo di calcolo mentale, con gare di velocità, senza mai affrontare problemi di geometria o di aritmetica. Lo studio della storia, della geografia e delle scienze non ha carattere sistematico e si riduce a temi particolari scelti anno per anno. Per esempio, un anno si può studiare la seconda guerra mondiale, l’anno successivo la civiltà egizia. Lo studio delle scienze può ridursi al tema “animali domestici”.
Gli insegnanti preparano le lezioni in modo parimenti schematico: deciso l’argomento, scaricano da internet i materiali su cui impostare il lavoro degli alunni.
C’è chi difende le meraviglie della scuola inglese perché si muove sulla nuova frontiera: il “disallineamento” tra classe anagrafica e livelli di apprendimento. Niente più classi scolastiche per età, bensì gruppi di apprendimento definiti da livelli certificati individualmente. I gruppi di livello si aggregano e disaggregano in funzione dei vari settori (scienze, lingua) e non sono mai composti dalle stesse persone. Non è qui possibile mostrare l’assurdità teorica e pratica di un simile schema. Limitiamoci a riferire il racconto dell’insegnante circa quel che accade al livello elementare. Gli alunni vengono divisi per banchi colorati secondo i livelli e spostati di gruppo secondo i settori. Questa ripartizione crea sentimenti di competizione e di vero e proprio odio tra i gruppi di livello inferiore e superiore che, appena si allenta la sorveglianza dell’insegnante, si picchiano come branchi di animali. L’insegnante era colpita dall’innocenza dei bambini italiani a confronto con quelli inglesi, cresciuti troppo in fretta e capaci di prendere a pugni l’insegnante all’uscita da scuola. Un simile livello di aggressività richiede regole di condotta molto severe: durante l’intervallo spesso non ci si può neppure alzare.
L’altro giorno la maestra di mio figlio ha detto una frase stupenda: «È molto difficile entrare nel cuore di suo figlio, ma io credo di averne trovato la chiave». Ho pensato che se la scuola italiana regge ancora è per merito di insegnanti così. È lo stesso spirito che emerge nel bel libro Almanacco di un professore di Gennaro Lubrano Di Diego (Guida, 2009): un rapporto educativo in cui una persona guida un’altra a formare la propria conoscenza e la propria libertà – perché la conoscenza è libertà – e non un sistema di regolette per tenere a bada un formicaio, inevitabilmente un formicaio impazzito.
(Tempi, 24 settembre 2009)

venerdì 18 settembre 2009

ROSH HA-SHANA'


Shana' Tova'

mercoledì 16 settembre 2009

ALLIEVI DI GOEBBELS

Non è certamente per un pavido tentativo di mettersi al riparo ma per mostrare fino a che punto di malafede si possa arrivare pur di costruire dei capri espiatori se dico che quel che ha fatto il Gruppo di lavoro sulla formazione degli insegnanti da me presieduto non aveva nulla a che vedere col problema del precariato. Al contrario. La nostra scelta è stata di separare il problema della formazione iniziale degli insegnanti da quello del reclutamento e di occuparci soltanto del primo, il che era peraltro prescritto dal decreto costitutivo della commissione. Quel che rende grottesche le accuse che ci vengono mosse in certi siti estremisti – e a me in particolare come «vero autore della Riforma che sta sconvolgendo la vita a decine di famiglie» – è che aver separato questi temi è stato il principale motivo di critica che taluno ha mosso al nostro progetto… Noi abbiamo ritenuto che il problema della formazione andasse distinto da quello del reclutamento, in quanto il primo è di natura essenzialmente teorica – a differenza del secondo, più pratico – e richiedesse di essere una buona volta definito a regime, in una prospettiva stabile, e non provvisoria, legata alla contingenza e a misure tampone. Quindi un problema distinto dal reclutamento, per non dire da quello del precariato, che ha una natura di emergenza e può essere affrontato soltanto in termini di scelte politiche volte a superare nel modo più indolore una drammatica eredità accumulatasi in decenni di politiche sconsiderate.
Se il nostro progetto ha qualche cosa a che fare col precariato è casomai nel senso che, per il futuro, esso mira ad evitare la creazione di altre sacche di precari!… Ai critici che ci invitavano, secondo il solito metodo all’italiana, a ricorrere al principio di implicazione – A è legato a B, B e C, ecc. quindi o si risolve tutto insieme, o niente (e quindi niente) – abbiamo risposto che, visto che si parla tanto di spirito scientifico, chi vuol affrontare razionalmente i problemi complessi deve saperli distinguerli in sottoproblemi risolubili e non intrecciarli l’uno sull’altro come un nodo gordiano.
Quindi una delle critiche principali (e sbagliata) al nostro progetto è stata di esserci occupati soltanto di formazione… Di altre – un rapporto più equilibrato tra scuola e università nel processo di formazione, più spazio al tirocinio – si è tenuto conto in un processo di consultazione e di confronto a tutto ispirato salvo che a un decisionismo impositivo. In fin dei conti, il nostro progetto ha riscosso molti più consensi che critiche e molti hanno capito che esso prefigura un futuro di maggiore serietà e senza precariato.
Questo, ripeto, tutti hanno dato mostra di averlo capito. Ma ora qualcuno ha deciso di far credere ai precari in agitazione che siamo noi ad aver costruito una “riforma” per farli piangere. In breve, si sta fabbricando in perfetta malafede un capro espiatorio.
In questi mesi, le polemiche in cui ci siamo trovati sono state tutte civili, salvo qualche insulto isolato nei limiti della norma. Ho registrato personalmente i soliti riferimenti al mio “ebraismo” da parte dei soliti estremisti, magari qualche caduta di stile di un funzionario in pensione, qualche frasaccia sul mio cognome («è tutto un programma»), ma sono abituato dalla nascita a questi detriti, che non mi fanno né caldo né freddo. Però stalvolta è stato passato un confine: non soltanto per la definizione di «puparo ebreo», quanto per il parallelismo con Marco Biagi rafforzato da un riferimento “teorico” insistito al fatto che, come allora Biagi sarebbe stato lo strumento della costruzione del precariato in generale (cosa che peraltro è un falso macroscopico), così oggi la sua operazione si starebbe riproponendo nella scuola.
Volete la prova che si vuol dir questo a dispetto dei fatti? Nel blog in oggetto, mentre si continua a far finta che il lavoro della nostra commissione abbia riguardato il precariato, l’amministratore ha tentato blandamente di calmare le acque osservando che «i tecnici seguono gli indirizzi politici, non hanno il potere di imporre riforme. Sarebbe come caricare su Marco Biagi la responsabilità della precarizzazione del lavoro. Qualcuno l’ha fatto, ma era un folle terrorista».
La risposta che ha ricevuto è talmente emblematica che non merita commenti (quantomeno per chi conserva un minimo di buona fede): «Ognuno di noi è responsabile di quello che fa. Non esistono tecnici per la dequalificazione della scuola e per terrorizzare decine di migliaia di famiglie. È una scelta politica. In quanto a Biagi certamente è da condannarne l’omicidio ma quando collaborava con il governo avrebbe dovuto chiedersi l’effetto delle sue proposte su una intera generazione di giovani che è incanutita da precaria senza futuro e sull’altra che ne sta seguendo le sorti».
Dunque, non soltanto sono – siamo – ormai bollati come coloro che hanno preso addirittura la decisione politica di terrorizzare decine di migliaia di famiglie, ma l’omicidio di Biagi è condannato con il solito “ma”. La tecnica è quella codificata da Goebbels e che, per esplicita ammissione di Hitler, era stata copiata dai metodi stalinisti: ripetere cento volte la stessa bugia perché diventi una verità, fabbricare un capro espiatorio, additarlo al pubblico ludibrio per isolarlo meglio. Qui, poi, l’operazione torna particolarmente comoda, data la natura ebraica di un soggetto implicato, la quale ha una lunga tradizione di demonizzazione.
In queste ore sono arrivate tante manifestazioni di solidarietà che sono davvero confortanti. Ma fino a un certo punto. Perché a fronte delle chiare prese di posizioni di Fioroni e Buttiglione resiste una zona di silenzio. Talvolta, oltre al silenzio c’è di molto peggio. Così Repubblica ha derubricato la vicenda al fatto che il ministro Gelmini avrebbe colto «un’appetitosa chance offerta da un “cretino”» ed ha aggiunto: «Peccato che lo staff del ministro Gelmini si sia basato sulle agenzie senza neanche visitare il sito». Comica gaffe, perché è proprio Repubblica ad aver riferito una balla: «il vero artefice della riforma è il professor Giorgio Israel, ebreo come lo era Biagi»… A parte il fatto che non risulta che Biagi fosse ebreo, il tenore del messaggio era ben altro: «La Gelmini a questa riforma sta dando solamente il nome e la faccia. In realtà, l’artefice dietro le quinte di essa, il puparo, è l’ebreo Giorgio Israel. Come lo era Biagi, il riformatore della legge del lavoro, come lo è quel nano malefico di Brunetta». E una visita al sito, e ad altri connessi, avrebbe permesso di constatare che c’era anche dell’altro, e che, come abbiamo visto, non cessa di esserci. A che pro un atteggiamento tanto fazioso? In tal modo, si finisce col pagare (e far pagare) un prezzo troppo alto minimizzando una vergognosa e pericolosa demonizzazione, per giunta di stile razzista, solo per conquistare i precari a un’operazione politica.
(Il Giornale, 16 settembre 2009)

martedì 15 settembre 2009

ECCO COSA SIGNIFICA OCCUPARSI DI SCUOLA

Occuparsi di scuola in Italia...
Significa veder circolare in rete elucubrazioni teoriche secondo cui il progetto sulla formazione iniziale degli insegnanti elaborato dalla nostra commissione ministeriale è nientemeno che responsabile del precariato...
E farebbe parte di un disegno analogo a quello perseguito da Biagi con la sua legge sul lavoro.
Naturalmente sono delle pure e semplici follie. Il nostro progetto con le questioni del precariato non ha nulla a che vedere e tantomeno con la legge Biagi.
Ma nulla giustifica una simile frase efferata:

La Gelmini a questa riforma sta dando solamente il nome e la faccia. In realtà, l'artefice dietro le quinte di essa, il puparo, è
l'ebreo Giorgio Israel. Come lo era Biagi, il riformatore della legge del lavoro, come lo è quel nano malefico di Brunetta.


Per chi ricorda quale trattamento abbia avuto Biagi penso che non ci siano bisogno di commenti.

Altri chiedono:

Chi è Giorgio Israel che a quanto pare è il vero autore della Riforma Gelmini che sta sconvolgendo la vita a migliaia di famiglie?


E un altro osserva:

Ti è venuto il prurito a leggerne il cognome?

Non trovo nulla da dire.
Soltanto che tutto ciò non è per niente piacevole.
Giorgio israel